FERRARA. La salutare incoscienza di Gerda Taro l’ha resa una figura eccezionale, una donna che ha lasciato di sé un ricordo indelebile. "La ragazza con la Leica" (Guanda) è il libro che Helena Janeczek ha presentato quest'anno nella Sala dell’Arengo del municipio di Ferrara con introduzione di Giuseppe Muroni, docente dell’Istituto di Storia Contemporanea, e Maria Chiara Fabian dell’Associazione Il Fiume. Questo libro ha permesso all'autrice di vincere il prestigioso Premio Strega 2018.
Janeczek, chi era Gerda Pohorylle?
«Nacque nel 1910 a Stoccarda in una famiglia di commercianti ebrei polacchi. Si oppose al Nazismo sino al ’33, quando scappò in Francia come profuga politica. Lì si arrabattava, specialmente facendo la dattilografa, frequentando i leggendari caffè parigini dove s’incontravano i rifugiati che vivevano in stanzette d’albergo micragnose».
E a un tavolino conobbe il fotografo ungherese Endre Friedmann…
«Il quale era messo peggio di lei, dovendo spesso consegnare al banco dei pegni l’unico bene che possedeva, la sua Leica. C’erano già tanti fotografi che cercavano di mantenersi con le inchieste giornalistiche. Fu il momento in cui si affermò la rivista Life. Frequentandolo, imparò ad usare la Leica mentre lei lo rendeva più presentabile, più competitivo rispetto alla concorrenza. Dopo un anno tra i due scoppiò l’amore».
E presto i due cambiarono nome. ..
«Comparvero in circolazione Gerda Taro e Robert Capa che, muniti di nuove identità, nel ’36 partirono per la guerra civile spagnola pieni di idealismo e solidarietà. Sostenevano la Repubblica e fu l’occasione che consacrò Capa con lo scatto “Un miliziano colpito a morte”».
Occasione che costò la vita a Gerda…
«Documentava una battaglia per la difesa di Madrid quando finì travolta da un carro armato amico, morendo a pochi giorni dal suo 27esimo compleanno».
Perché la sua libertà espressiva ha contribuito a illuminare il buio del Novecento?
«Era una personalità che ispirava, energica e sensuale. Mi ha attratto per la varietà di sfaccettature del suo carattere, capace di alleviare un periodo molto duro. Mi ha insegnato che si può essere spavaldi e leggeri, al contempo, anche di fronte alle difficoltà».
Quando è rimasta folgorata dalla sua vicenda?
«Ho cominciato dalla prima retrospettiva dedicata alla sua opera. Per decenni non è stata presa in considerazione come fotografa di talento. Solo a seguito della biografia scritta da Irne Schaber, che ha separato la sua produzione da quella di Capa, mi sono resa conto del suo spessore e della sua vitalità incontenibile».
Matteo Bianchi